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"Vuole stare sempre in braccio!": il punto di vista etologico

"Vuole stare sempre in braccio!": il punto di vista etologico

"Vuole stare sempre in braccio!": il punto di vista etologico

Migliaia e migliaia di anni
Non basterebbero
Per dire
Il minuscolo secondo d’eternità
In cui tu m’hai abbracciato
In cui io t’ho abbracciato.

(Jacques Prévert) 

“Piange sempre, vuole stare solo in braccio!”
“Dorme solo in braccio a me!”
“Appena lo prendo si calma.”

Sfido qualunque madre a non averlo esclamato o pensato almeno una volta (ma più probabilmente un milione di volte!) durante i primi mesi post parto. In braccio sta “buono” ma le nostre braccia pesano, i nostri spazi personali completamente invasi, impossibilitate a fare qualsiasi cosa se non “trasportare” perennemente questo dolce frugoletto che, appena poggiato nella culletta comincia a strillare come un’aquila ferita! Ad aggiungere al carico ci si mettono anche parenti-amici-conoscenti che puntualmente catalogano come “vizio” questa frequente richiesta del bebè. Ma quanto si tratta di vizio e quanto di bisogno fisiologico? Se andiamo a vedere questo comportamento dal punto di vista etologico le idee si chiariscono…e non poco!

In passato i cuccioli di mammifero si distinguevano in due categorie: vi erano i nidiacei, come cani e gatti, che nascono fortemente immaturi dopo una gestazione molto breve e vengono tenuti in un “nido” per lunghi periodi mentre i loro genitori si procacciano il cibo; e vi erano i nidifughi, come cavalli e pecore, che hanno invece una lunga gestazione e alla nascita si presentano estremamente maturi, in grado già dopo poche ore di camminare. È come se essi avessero trascorso la fase nidiacea in utero.

Nel 1970 lo zoologo biologo Bernhard Hassenstein, ispiratosi all’osservazione di alcuni mammiferi come scimmie, canguri e koala, che non ricadevano alla perfezione nelle due definizioni, introdusse una terza categoria: i portati! Questi cuccioli avevano al contempo caratteristiche dei nidifughi (come la somiglianza con i genitori) e dei nidiacei (ad esempio l’immaturità nello sviluppo), ma ciò che li distingueva era il fatto che il loro nido era la madre, essi infatti passavano il periodo dell’esogestazione addosso ad essa e venivano da essa trasportati.

Secondo la tesi di Hassenstein anche il cucciolo di uomo ricade nella categoria dei portati avendo varie caratteristiche in comune con essi. Egli però nel corso dell’evoluzione e specialmente quando l’essere umano divenne sedentario sarebbe diventato da portato attivo un portato passivo, dove se prima era il cucciolo ad aggrapparsi al pelo della madre ora era lei a sorreggerlo attivamente.

Si evince che il cucciolo d’uomo sia portato attraverso lo studio di varie caratteristiche come i riflessi primordiali tra cui Il riflesso di presa (grasping) dove il cucciolo nasce con i pugnetti chiusi e tende ad aggrapparsi sia con le mani che con i piedi, alcune caratteristiche anatomiche come l’orientamento delle anche o la naturale cifosi della colonna vertebrale e delle caratteristiche dello sviluppo neurologico. Da notare anche la posizione divaricata-seduta, tipica dei neonati.

Ci soffermiamo però su alcune caratteristiche comportamentali. Per il neonato portato il contatto costante con la madre rappresenta l’assicurazione della sua sopravvivenza. La madre è colei che lo nutre, lo scalda, lo contiene. Il contatto e il movimento sono percepite come condizioni adatte e appropriate mentre l’assenza di essa e la presenza di silenzio, immobilità e la mancanza di contatto vengono percepite come situazioni di pericolo. Il neonato inoltre non ha consapevolezza dell’io e del tu e riconosce la madre come parte di se stesso. Egli vive la condizione di assenza della madre e la perdita di contatto con angoscia e trova invece conforto nella suzione, nel contatto corporeo che egli riconosce come “interno” perché vissuto già dai primi momenti di vita e anche dall’ambiente uterino.

In questa nuova ottica diamo senso ai comportamenti dei nostri piccoli mammiferi: non la ricerca di contatto come vizio ma come condizione fisiologica e giusta. Il pianto al mancare del contatto non come “capriccio” ma come reazione normale e sana! Possiamo ora accogliere i nostri cuccioli con la consapevolezza che è proprio lì che essi appartengono ed è in quell’abbraccio che ritrovando la mamma ritrovano se stessi.

Va da sé che il babywearing può essere un utilissimo strumento per raggiungere gli obiettivi di contatto e contenimento. 

Nastasia Morin
Consulente Babywearing School

Riferimenti bibliografici: “Portare i Piccoli” di Esther Weber

 

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